Quando ripenso al giorno in cui è nata Lydia sento un turbine di emozioni dentro di me.
E’ difficile riuscire a descrivere le sensazioni provate quel giorno. Se provo a ricordare so che la testa mi giocherebbe brutti scherzi perché i ricordi sono un po’ confusi, i fatti si mischiano tra di loro e quando mi confronto con il mio compagno abbiamo sempre due visioni diverse di ciò che è successo.
L’ostetrica del corso di accompagnamento alla nascita in fondo aveva ragione quando diceva che per affrontare una gravidanza e soprattutto il momento del parto non bisogna essere lucide.
Il nostro corpo è un macchinario perfetto e come tale sa benissimo cosa deve fare, dobbiamo solo ascoltarlo.
Non ricordo quale fosse il film, ma ricordo benissimo questa frase che sentito “ i figli si fanno con la pancia non con la testa”. In un mondo come quello di oggi dove si tende a programmare ogni singolo secondo della nostra vita, penso non ci sia nulla di più vero e devo dire che prenderne davvero consapevolezza è stata una delle cose che mi ha fatto affrontare il giorno più importante della mia vita con il sorriso sulle labbra.
Ho deciso di concentrarmi sul ricordo degli odori di quel giorno, qualcosa che non è razionale, ma pura sensazione, qualcosa che mi porti alla mia parte più istintiva ed emozionale.
Ricordo benissimo l’odore della sala travaglio, così asettica e dispersiva che un po’ mi faceva paura.
Ricordo l’odore un po’ pungente del liquido amniotico quando mi hanno rotto il sacco.
Ma soprattutto ricordo l’odore della paura.
Mi rivedo li, in quella stanza, un po’ tremante e tanto spaesata. Continuo a ripetermi che ce la posso fare, che in fin dei conti le donne partoriscono da millenni, che siamo nate proprio per fare questo.
Ho paura perché sono 8 giorni oltre termine, ho paura perché mia figlia si sta muovendo pochissimo dentro di me, ho paura perché il liquido amniotico si è ridotto notevolmente in poche ore e alla fine i medici hanno deciso per un’induzione.
Un’induzione. A me. A me che volevo fare il travaglio a casa e andare in ospedale solo all’ultimo. Un’induzione a me che quando mi ero immaginata come sarebbe stato il giorno della nascita della mia prima figlia non avevo contemplato l’idea di un intervento sanitario.
No, io non volevo essere indotta a partorire, come se da sola non ne fossi capace, come se fosse naturale farlo con una flebo nel braccio che regola le tue contrazioni.
Ero incazzata nera con il mio corpo, mi sentivo come se mi stesse tradendo, come se mi stesse dicendo che non ero in grado di fare una cosa così semplice come dare la vita.
Ricordo benissimo il momento in cui l’ostetrica mi ruppe il sacco, quella sensazione di acqua tiepida tra le gambe che ti fa tornare un po’ bambina perché pare che tu ti sia fatta la pipì addosso, e invece da lì a poco si sarebbe sancito il passaggio alla donna che era in me.
Per un’ora restai seduta sul lettino a giocare al telefono con Christian e in quell’ora arrivo una sola contrazione, che a onor del vero ricordo fosse molto dolorosa, ma che se l’analizzo razionalmente penso che fosse nulla rispetto a quello che ho affrontato dopo.
Niente. La rottura del sacco non funziona e allora decidono per la somministrazione di ossitocina in vena. Ecco, lì ho avuto paura. Adesso che vi spiego perché sono sicura che mi prenderete per pazza. Ma io, da buona infermiera, conosco molto bene le mie vene e so quanto sia difficile riuscire a mettermi una flebo e quando hai paura le vene si vasocrostringono quindi immaginate bene cosa possa essere rimasto del mio patrimonio venoso in quel momento.
Ho stampato a fuoco nella mente il viso di quella santa ostetrica che è riuscita a mettermi il venflon al primo colpo. Ricordo i suoi capelli biondi, ricordo la sua risata, ma soprattutto la sua empatia per me e per quel momento. Mi ha fatto ridere, non so con quale battuta, ma abbastanza da permettermi di rilassarmi quei secondi necessari per bucarmi il braccio.
Ecco lì, in quel preciso istante si è stravolto tutto.
Ho smesso di pensare che non ce l’avrei fatta, che sarebbe andato tutto male. Quella donna con la sua estrema professionalità ha cambiato l’incipit di una giornata che aveva del terrificante. Quell’ostetrica è riuscita a infondermi la fiducia necessaria ad affrontare il giorno più importante della mia vita.
Se c’è una cosa che non auguro a nessuna donna è proprio quella di avere un travaglio indotto con ossitocina sintetica.
Le contrazioni non sono regolata dal mio corpo, non sono io che decido e mi do il tempo, ma è una stupida pompa siringa che va al suo ritmo senza seguire il mio.
Ogni contrazione arriva e pare una coltellata, dove? non lo so, mi fa male tutto.
La cosa più brutta è che non riesco a riprendere fiato, non ho pausa tra una contrazione e l’altra.
Mi irrigidisco, non riesco a seguire il ritmo imposto da quel macchinario, invece di lasciarmi andare ad ogni contrazione sono un fascio di nervi.
Christian è lì con me, mi supporta, mi vede soffrire e impotente può solo stringermi la mano, accarezzarmi la schiena e a modo suo infondermi coraggio.
Dopo due ore in quello stato chiedo all’ostetrica l’epidurale. Ecco un altro smacco. Io che avevo fatto la visita con l’anestesista just in case mi ritrovo dopo solo due ore a chiedere il suo intervento. Io che volevo fare il travaglio in casa e che in realtà avevo fatto un pensierino anche al parto in casa, chiedo l’intervento di un medico. Ecco posso dire che in quel momento non mi riconosco più. A posteriori posso dire che quella è stata la mia salvezza.
Dite la verità, state pensando che mi abbia salvata perché non ho provato più dolore, ma in realtà non è proprio così e adesso vi spiego perché.
L’ostetrica non vuole chiamare il medico mi dice che ce la posso fare e che non ho bisogno nessuna epidurale. Io ripeto una seconda volta che invece la voglio. Alla terza mi accontenta e chiama il medico.
Ricordo che fecero uscire Christian, ricordo l’ostetrica che mi seguiva davanti a me che mi abbraccia e mi supporta mentre ho un ago nella schiena. Giustamente il medico ci mette il suo tempo per fare le sue manovre e nel mentre le contrazioni continuano imperterrite ma io non mi posso muovere, non posso irrigidire i muscoli e allora finalmente mi lascio andare, seguo l’ostetrica e le sue parole, accolgo il dolore, lo faccio mio e lo elaboro con la respirazione, lo immagino partire dall’alto e arrivare in basso, immagino il mio ventre che si apre e finalmente riesco a pensare a mia figlia, penso che comunque vada al più presto sarà tra le mie braccia, penso che non c’è dolore che non affronterei per averla tra le mie braccia.
Il medico finisce il suo lavoro e mi comunica che il bolo di farmaci farà effetto da lì a 15 minuti circa. Ancora un piccolo sforzo Irene e poi potrai prenderti una pausa da quel dolore che ti pervade.
Esce il medico, entra Christian. Sono passate 2 ore e 40 da quando ho iniziato a travagliare e prima dell’epidurale l’ostetrica aveva valutato una dilatazione di 3 cm.
Il mio compagno entra e mi prende per mano come per assicurarsi che stessi ancora bene nonostante la sua assenza forzata.
Ecco che sento una sensazione strana, il mio corpo, quel corpo di cui avevo imparato a fidarmi poco prima, si comporta in maniera diversa. Sento un peso più basso e la pancia lavora per i fatti suoi, le contrazioni sono dolorose, ma il dolore passa nel momento in cui lui decide di spingere.
Oddio, sto spingendo! Intimo a Christian di chiamare l’ostetrica immediatamente e lui lo fa.
Ricordo ancora che quando entra e vede che sto spingendo quasi mi sgrida e mi dice che non devo spingere se non sono dilatata completamente altrimenti rischio di lacerarmi e ricordo ancora che le risposi che non ero io a spingere ma la mia pancia.
Pensavo che a quel punto mi visitasse e invece le è bastata un’occhiata là sotto per vedere la testa di mia figlia.
Ricordo che urlò al personale di supporto di portarle camice e carrello perché stavamo nascendo.
Hanno fatto giusto in tempo a portare tutto e a vestirla che in tre spinte Lydia era già fuori.
Ed eccola li, ecco quello scricciolo che tanto ho chiamato in quelle ore.
Eccola li con i suoi occhi spalancati che già guardava il mondo e urlava incazzata nera per essere stata tirata fuori, del resto lei dentro lì ci stava proprio bene.
Ricordo l’odore che aveva, qualcosa di indescrivibile ma che per me è l’odore dei ricordi.
Nel momento in cui l’hanno appoggiata al mio ventre, ancora attaccata al cordone ombelicale, smise di piangere come se il calore della mia pelle, il mio odore le dicessero “va tutto bene piccolina”.
E io piangevo, piangevo per l’emozione, piangevo per la gioia, piangevo perché quella fatica era finita, piangevo perché il sogno di una vita si era realizzato: ero diventata Mamma.
Potrei raccontare ancora tante cose, tanti dettagli, ma la cosa più importante che ho imparato è che quando si partorisce bisogna abbandonarsi al proprio corpo, staccare la mente e lasciarsi andare. Avere paura è naturale, il dolore non è piacevole e si, è vero, è devastante.
Non è vero che i dolori del parto si dimenticano, io li ricordo ancora benissimo a distanza di quasi 3 anni, ma ricordo ancora meglio il momento in cui è cambiato tutto, il momento in cui sono riuscita a lasciarmi andare e non ho più avuto paura.
Ho imparato che il travaglio è solo un passaggio, qualcosa di poco valore e come tale va affrontato, con la leggerezza di chi sa che dall’altra parte ti aspetta qualcosa di così grande e immenso che ogni contrazione che arriva è una in meno da affrontare, ogni dolore lancinante che provi è un passo più vicino al tuo bambino.
Quando mi chiedono come è andato il mio parto la mia risposta è sempre “benissimo!” ed è la verità. E’ stato un travaglio intenso, sono state tre ore toste, ma nel momento in cui sono entrata in contatto con me stessa ho acquisito una fiducia in me che non avrei potuto avere altrimenti.
E’ stata la conferma che è vero che noi donne abbiamo risorse che nemmeno immaginiamo.
E’ vero che i bambini si fanno con la pancia e non con la testa.
Quel giorno è nata mia figlia, quel giorno sono nata anche io.
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